ANTONIO JADICICCO
PIGLIO
ALLE FALDE DEL MONTE SCALAMBRA
PROPRIETA RISERVATA
ALL'AMICO LETTORE
Nell'iniziare a stendere queste poche pagine, vorrei mettere in luce un punto, affinché < non si fraintenda quello che man mano andrò scrivendo: se mi accingo a fare un quadro rapido
del mio paese, non lo faccio con intenti letterari o per mettere alla berlina difetti o vizi alcuni (anche se naturalmente qualche digressione di tal genere potrà capitare, se non altro per essere il più possibile
obbiettivi); i proponimenti e gli scopi sono del tutto diversi.
Sono stato spinto a ciò dall'amore che io sento per Piglio, amore che si esterna valorizzando il paese natìo in ogni modo. Uno può essere quello di far conoscere i
suoi notevoli pregi, anche attraverso qualche scritto.
Questo modesto opuscolo quindi è steso senza pretese letterarie o storiche che sìano, ma solo per l'espressìone appassionata e calda di un sentimento.
Piglio, 22 novembre 1963.
Nella vita odierna, dominata dalla dinamicità, da sempre nuove scoperte, con un ritmo diciamo pure impressionante, spesso ci viene in mente il nostro paese, soprattutto quando da esso siamo lungamente assenti, poichè vi abbiamo cari ricordi che in un momento di abbandono, di sconforto, di costernazione, vengono ad elargirci la perduta serenità e tranquillità, da tutti sempre agognate. Pertanto il lasciar per iscritto qualche reminiscenza sembra quasi doveroso, affinchè rimanga duratura per quelli che dovranno venire, i quali immersi nel vortice di lontane città più progredite, se non altro per rinsaldare l'attaccamento al lavoro come i loro padri, a malapena ricorderanno che in un paese chiamato Piglio nacquero quelli che fecero vedere loro la luce.
Il monte Scalambra
e una visione panoramica di PIGLIO (FR)
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Tra gli antichi castelli, che con le loro rocche riempivano le assolate ma pur verdeggianti valli e i monti impervii della regione ernica, risplendeva il Castrum Pillei, da cui l'attuale Piglio trae la propria denominazione toponomastica e la sua gloriosa origine. Nei secoli della remota antichità, a questo nostro tranquillo paese, che dolcemente si adagia a cavaliere sul dorsale di un colle alle falde del monte Scalambra, dove peregrinò e volle arroccarsi la fuggiasca popolazione dell'antichissimo Capitulum Hernicorum, arrise la lieta fortuna per il successo trionfale di moltissimi fatti d'armi, di cui furono spettatrici le nostre fiorenti contrade. In quelle aspre lotte, sostenute per l'integrità del nostro territorio, rifulse sempre il valore dei difensori del valico militare, interposto tra la valle del Sacco e l'alta valle dell' Aniene, e presidiato dall' efficienza bellica del Castrum Pillei.
Sarà bene nel continuare questo rapido quadro della storia antica di Piglio, far basare il lettore su documenti storici, che possono rendere, meglio di ogni altro scritto, più sicura e genuina la descrizione: Così il Bonnucci descrive il Piglio:
( Terra è questa spettante alla diocesi di Anagni, posta negli Ernici, circondata da montagne, aperta solamente a ponente, e lontana da Roma trenta miglia. Fu fondata dugent'anni prima della venuta di Cristo al mondo da Quinto Fabio Massimo, quando andava con Quinto Marcello contro Annibale Cartaginese a Marsi nel lago di Fucino; e passando per la strada più breve dove ora sta fondato Piglio, dalla veemenza del vento gli fu levato il cappello di testa; e dicendo ai soldati Pileum, Pileum, acciò lo ricuperassero, l'ebbe a buon augurio, e v'edificò un castello assai forte per arte, e per sito, e del quale ancor oggi se ne vedono le rovine. Poi si accrebbero le fabbriche, e gli abitanti vi formarono una grossa terra murata, la quale nel 1616 faceva sopra quattrocento fuochi, ed anime sopra millecinquecentocinquanta ma oggi dopo la peste dell'anno 1656 fa solamente centosettanta fuochi e anime settecentosettantatrè essendo cadute molte case con diminuzione di due terzi del popolo. Due volte è stato abbattuto dal cannone il detto Castello nelle guerre di Campagna, in tempo di Paolo IV, e bravamente si difesero i paesani, con ribattere sempre l'inimico, essendo gli uomini di questa terra atti a maneggiar armi al pari di qualsivoglia. L'aria
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è salubre e sottile, il terreno pingue e abbondante.Si vede
il territorio ripieno di ogni sorte di alberi, ed in particolare di olivi: l'acqua viene perenne dentro la terra e nel territorio vi sono moltissime fontane d'acque sorgenti. Si vedono
dentro i suoi confini molte selve che rendono comodità di fuoco proporzionata alla freddezza dell'aria; sicchè in tutti quattro gli elementi non la cede a veruna terra vicina alla Campagna ))
Però l'episodio che attribuisce a Quinto Fabio Massimo la fondazione di Piglio sa quanto mai di leggenda e in confutazione di essa ci sono vari codici che la fanno via via sfumare. Infatti considerando la storia della parola (( Piglio)) ed indagando lo sviluppo di questa o meglio la derivazione del suo primitivo ètimo, che per noi è quello di Capitulum, o Pitulum (come si legge negli antichi codici) si è indotti a ritenere che anche questa voce originaria fu successivamente trasformata in quella di Pileum, sotto l'influsso di numerosi fattori. Nei codici medievali si registra promiscuamente : Pilum, Pileum, Pillum e Pyleum. Per il vezzo dialettale del popolo pigliese naturalmente abituato a sincopare le parole, anche la voce primitiva di Capitulum, avendo subito la detrazione sillabica della CA iniziale e del TU intermedio, finì per essere coartata nelle espressioni bisillabiche di Pilum, Pileum, donde Piglio.
Parole elogiative per il nostro paese le ebbero anche altri studiosi e storici, come Strabone, De Magistris (storia d'Anagni), il Padre Romualdo, al secolo Andrea De Santis, segretario per molto tempo nella Casa dei Colonna, Signori del Piglio, lo storico latino Paolo Diacono, che lo chiamava Pileum Vicus, ed un non meglio identificato Padre Ugolini. In un manoscritto di quest'ultimo gelosamente custodito negli archivi della Collegiata, si legge tra l'altro:
« Fra i luoghi che compongono la diocesi di Anagni, uno dei più illustri e ragguardevoli è la terra di Piglio, situato nelle radici dei monti Appennini, fra gli antichi popoli Ernici, ove esistono ancora nelle di lui pianure, li pregiati avanzi della villa di Nerva Imperatore, e quelli di un . campestre palazzo di Nerone, sulla cima dei suoi monti, il quale era destinato al trattenimento nelle Caccie Imperiali.... Dopo vari Signori divenne sotto Martino V, illustre Feudo dei Principi Colonna, conta presentemente la sua popolazione presso a 2700 abitanti, fra quali molte ricche, e civili famiglie
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gode di un'aria salubre ed è assai fertile nelle sue campagne, e felice nelle sue produzioni ))
Ora purtroppo della villa di Cocceio Nerva e del palazzo di Nerone resta ben poco. Della prima, con le sue cento aule e gli spalti marmorei, si può trovare qualche resto in località ( Sant'Eligio))
non lungi dal Convento di S. Giovanni; del secondo invece restano ancora tracce visibilissime, ma la zona dove era situato non fa più parte del nostro comune, bensì di Arcinazzo Romano. Attualmente quello che si presenta alla vista del visitatore non differisce molto, mutatis mutandis, da ciò che ci hanno lasciato scritto i nostri antenati. .
Dalla attuale posizione e suddivisione geografica si deduce che il Piglio è un paese del Lazio inferiore, facente parte della caratteristica Ciociaria, alto sul livello del mare 621 metri, situato sulle propaggini del gruppo montuoso che abbraccia la plaga occidentale del Lazio, in una zona amena ,che solo da qualche anno comincia ad essere conosciuta dai turisti, mentre ha bellezze naturali che attirano anche il più riserbato ammiratore della natura. La valle che lo accoglie vede intorno a sè imponenti catene di monti, come i Lepini e gli Ernici, appartenenti al Subappennino centrale.
Ha una popolazione sestuplicata rispetto a quella dell'anno della peste, (conta infa tti quasi cinquemila abi tan ti), con proporzionati numeri di (( fuochi ». Le selve, ormai scomparse, per i pigliesi dell'era atomica sono un lontano ricordo. La vetta del monte Scalambra, che ai nostri avi segnò la meta per le scalate belliche, e per le nostre donne che giornalmente vi si recano per la raccolta della legna rappresenta l'aspro calvario delle ascensioni mattutine, apre al turista gli orizzonti più lieti. Lo spettacolo, che la natura circostante offre al turista che raggiunge quella vetta di 1419 metri, è veramente affascinante. Le montagne vicine e lontane si rincorrono a catena dall'Abruzzo fino ai colli Albani. Le turgide balze dei poggi che increspano la piana della valle del Sacco, le grigie torri presso Segni, i conventi e le badie di Anagni, di Paliano, di Fiuggi, di Acuto, di Trevi, di Affile e di Piglio, le cadenti ville romane disseminate nella storica terra emica, ignorata dai più e negletta dalle stesse popolazioni indigene, e ì vigneti ai quali si vanno aggiungendo
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gli oliveti, rendono più smagliante il panorama che si gode dalla nostra vetta.
cc L'acqua che viene perenne » per riportare le parole del citato Bonnucci, deve essere una caratteristica della zona, se già dai tempi antichi aveva tale prerogativa. Ora vi è una distribuzione idrica tra le più abbondanti della regione, tanto che l'acquedotto del Simbrivia di cui il Piglio è socio consorziale dal 1929, provvede al fabbisogno dell'acqua per molti paesi lontani e limitrofi.
Nell'insieme all'occhio dell'ospite si presenta un superbo scenario montano, con strade snodantisi a precipizio sulla montagna, e chi ha avuto la fortuna di transitarvi avrà senz'altro ammirato un panorama di stupenda bellezza. Infatti la strada che conduce agli Altipiani di Arcinazzo, che quasi sembra portare ad un altro mondo. riempie di uno stupore e di una trepidazione insoliti. Stupore per l'ineguagliabile scenario che fa godere, e trepidazione per l'inerpicarsi della via romana sulla montagna, quasi senza lasciar respiro, tanto da presentare al di sotto un immane baratro, che fa pensare quasi all'Inferno dantesco.
In quella verde valle è situato Piglio. Così dalla iniziale paura dello strapiombo, il cuore si riprende ed ammira un paesaggio dalle caratteristiche inconfondibili. Tutto qui è creato dalla natura e non dalla fantasia dei poeti. Il rumore della città. delle fabbriche. qui sembra aver fine. Chi vi è spinto dal frastuono delle metropoli. ha davvero la sensazione di aver trovato una quiete senza pari. Chi ha la fortuna di ascendervi può ammirare il castello (purtroppo pericolante ed ora in fase di parziale demolizione) e le case raggruppate ed avere la sensazione di trovarsi ancora di fronte ad una acropoli medievale.
I campanili della chiesa fanno spicco insieme con il castello e con esso sembrano vigili pastori di un gregge in definitiva calmo. Gli abitanti infatti dediti al lavoro non hanno tempo per schiamazzi e feste. La mattina si levano di buon'ora e quando l'aurora brilla rosea nel cielo, sono tutti alle loro occupazioni. A sera, calato il sole, dai campi, dai filari, dai vigneti, sulle strade sassose, ,<11 i sentieri, sulla moderna strada asfaltata, a gruppi, tornano' a casa, nel paese che li accoglie tutti nello stesso modo, perchè tutti hanno sofferto, lavo-
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L'antico arco della lontana, con il sovrastante palazzo Colonna.
rata e aspettano nient'altro che il focolare domestico che dona serenità e pace.
Non tutti però si accontentano della pace e tranquillità familiare, poichè le cantine del Piglio, patria del puro vino Cesanese, odorose, aperte a tutti, e sempre traboccanti. accolgono i più focosi che non lesinano nel tracannare qualche bicchiere di vino. di quel vino che hanno ottenuto con le loro strenue fatiche. Infatti il Piglio, oltre al pregio dell' ((aria perfettissima)), della posizione naturale invidiabile, degli ottimi oliveti, possiede quello di essere un paese vinicolo tra i più rinomati d'Italia, per il suo rosso vino Ccsanesc. E' questo il pregio, di cui maggiormente i pigliesi fanno vanto ed a giusta ragione. Dai vigneti essi, oltre il lavoro, aspettano tutto, le gioie, il guadagno, il passatempo. La vendemmia. potremmo dire, è il fulcro della loro vita. Nelle tiepide giornate di ottobre in ogni angolo del paese, per ogni strada, il motivo dominante è (( il ribollir dei vini)). Si lavora senza risparmio, anche di notte se serve, per portare a termine la copiosa raccolta dell'uva al più presto e nel migliore dei modi. La lotta di questi contadini con la loro terra è veramente grande, appassionata. L'andare in campagna, come essi dicono, è per queste forti tempre di uomini dal fisico gagliardo, un vero biso-
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gno di vita. Il tempo libero è limitato al riposo del sabato sera e alle feste un po' orgiastiche della domenica. Ad esse tengono perchè l'assaporare più di una volta il loro genuino vino, è nei diritti di ciascuno. Non hanno commerci nè industrie varie, vivono come possono di quello che la madre terra, con tanto sacrificio, dà loro nella buona e nella cattiva stagione.
Nei giorni di solennità, anche qui si ripete ciò che accadeva nella piazzetta di Recanati. La gioventù, sana e robusta, vestita a festa anche se non al dernier cri, riempe le 'strade e a frotte, con la caratteristica animazione paesana, discute vivacemente, ammira con soddisfazione il compagno o l'amica con l'abito nuovo, perchè in quell'ingenua eleganza provinciale risiede tutto il loro piccolo, ma per essi, grande mondo. Ci si meraviglia e si rimane ancora troppo attoniti per un paio di scarpe un po'eccentriche o per un « collettone », di uso ormai comune nelle città, perchè la loro modernizzazione è lenta. Nonostante ciò l'alito nuovo della vita spira anche alle pendici del monte Scalambra, ma non ha niente a che fare con la vorticosa, volubile e quanto mai originale civiltà moderna.
Alcune donne, specialmente le più attempate, attingono ancora l'acqua anche se via via più raramente, dalla fontana, con la conca, che portano sul capo, vestite con il tipico e sgargiante costume ciociaro; le ragazze formose e numerose si adornano della loro grazia e naturale avvenenza femminile, considerando i cosmetici, rimedi per bellezze momentanee ed evanescenti, Pur tuttavia sono belle, forti, robuste, positive, equilibrate, anche se un tantino dinoccolate.
Ci sono poi i ragazzini, vispi, graziosi, gioviali, con salute sprizzante da tutti i pori, pullulanti ovunque: dalla piazzetta della Collegiata, ovvero dalla « piazza vecchia» come volgarmente dicono, fino ai filari del Cesancse. Tutti vivono con la loro abituale giocondità e longevità, con la loro vita laboriosa e sana ad un tempo, per l'aria davvero salubre che respirano. La vita, tra loro, scorre serena e tranquilla, e tale la rendono a chi li visita, perchè l'ospitalità è riservata a tutti: ricchi e poveri, sia del paese che della città. Pur nella loro usuale pacatezza a volte vengono a mancare nel rispetto della legge, ma ingenuamente, forse solo per aver goduto troppo del loro vantato prodotto. Trascorrono la vita nel lavoro e nelle case appollaiate intorno al glorioso castello, senza inganni e senza malizia, ignoran-
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do in parte quanto avviene al di là da essi e non ignorati, solo perchè tanti altri come loro non sanno resistere al fascino di trangugiare sorsi invidiabili del loro inimitabile Ccsanese.
Abbiamo già detto abbastanza sul Piglio, trascurando forse troppo i più immediati dintorni, che per importanza non sono in nulla inferiori al paese vero e proprio.
Facciamo conto di riprendere la strada citata innanzi e continuiamo su essa. Vediamo veramente che ci porta ad un altro mondo. Non più vigneti nè olivi vicino alla strada, ma di tratto in tratto qualche campi cella di grano turco e raramente di grano, poi più nessuna coltura. Vi sono solitudini dove l'occhio trova presto confine, animate appena da qualche capanna di pastori. Al margine della strada si può incontrare qualche vecchio pecoraio vestito di pelle di pecora, con il suo sguardo fiero e con le mani appoggiate sui fianchi, sentendosi quasi padrone della zona dove pascola il suo gregge, perché quella gli è più familiare.
Questo paesaggio in apparenza triste, quasi virgiliano, riempie il cuore di una soavità d'aura, direi anacreontica, anche se il poeta. greco, la spensieratezza la cantò, mentre da noi è offerta dalla natura.
I monti sono ricoperti di elci, abeti, pini, faggi e di ogni altro tipo di alberi che la macchia può offrire. Tutto pero contribuisce alla calma e alla pace. Tale visione si presenta al visitatore più affrettato e disattento, poichè, se veramente si vuole avere la sensazione di fondere cielo e terra in una sola vita per farle delizia, ciò' si può ottenere, avendo premura di ascendere in un sentiero isolato posto sul lato sinistro (partendo da Piglio) della strada statale, molto prima di arrivare a godere il sullodato paesaggio virgiliano.
Il sentiero ancora bianco e sassoso, ma carrabile, conduce nella quiete del Convento di San Lorenzo, adagiato proprio alle pendi ci del monte Scalambra a quota 850 metri. E' qui che veramente si ha la sensazione di fondere in tutt'uno cielo e terra. Infatti il luogo sembrò adatto per le sue aspirazioni ascetiche e contemplative anche a Frate Andrea Conti, che lì si rese degno della tanto meritata beatificazione. Il luogo, che il Beato scelse nell'autunno del 1262, fu prima scoperto da S. Francesco e abitato da altri frati che desiderosi di « loca amica moeroribus», luoghi che favorissero la compunzione,
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come dice San Bonaventura, avevano trovato la sede precisa e specifica per il loro ideale di vita.
La scelta del poverello di Assisi fu di una percezione eccezionalissima, se si pensa ai risultati ottenuti: la beatificazione di Frate Andrea Conti di Anagni, discendente da quella potente famiglia che alla Chiesa diede i tre papi: Innocenza III, Gregorio IX ed Alessandro IV e il perdurare di un noviziato di frati, improntato alla vita sana, ma anche alle più aspre penitenze. Il P. Bongianni, che in uno scritto fa. rivivere l'arrivo dell'anacoreta della montagna al Convento, definisce la via che lì condusse Frate Andrea (( l'erta stradicciola)).
Ora però, a distanza di secoli, il sentiero è diventato strada, anche se ripida e stretta, il Convento e la Chiesa (quest'ultima di tardo stile barocco è identica per struttura e dimensioni a quella di Sant'Andrea al Quirinale in Roma), sono stati ingranditi e modernizzati, specialmente dopo la loro parziale distruzione verificatasi nell'ultima guerra mondiale. Alle (( finestrucce » si sono sostituiti i finestroni, la chiesa rinnovata ed abbellita, e di nuovo consacrata il 23 agosto del 1954, dopo dieci anni di chiusura al culto per i danni subiti dal bombardamento, custodisce in un'urna, esposta al pubblico, le ossa del Beato. Nonostante le modifiche, il tutto però resta semplice e modesto, come la natura del luogo richiede.
Il Convento di S. Lorenzo, oasi di pace e di serenità, alle pendici del monte Scolambra
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Solo una cosa è intatta dal remoto 1262, la grotta, dove il Beato Andrea visse in un isolamento volontario per circa quarant'anni, soffrendo freddo, fame e macerazioni a non finire. I pigliesi sono molto devoti al Beato, che ha voluto lasciare un'impronta indelebile della sua permanenza nella grotta degli Ernici, ai piedi dello Scalambra, con una serie di vittorie sugli spiriti maligni. Da tutti è ricordata con grande ammirazione l'unica uscita dalla grotta del Beato che, discendendo lungo il sentiero percorso per salire al Convento nel 1262, fermandosi nel punto dove ntorna più vicino al visitatore il panorama di Piglio, liberò il paese sottostante da tutte le infestazioni diaboliche con un semplice segno di croce fatto con il Crocifisso alzato in aria.
Si potrebbe ancora continuare nell'elencare episodi, fatti, particolari sulla vita del Beato e sulle bellezze, che una visita al Convento può riservare. Ma lasciamo che il lettore più interessato si renda conto personalmente di godere e di ammirare il tutto, venendo sul luogo, in modo da cogliere ogni particolare nelle sua perfetta genuinità.
Scrivendo del Piglio, non si, può non soffermarsi un tantino sulla Madonna delle Rose e sulle sue miracolose manifestazioni. Il suo Santuario si trova sul ciglio meridionale del colle, là dove la monotonia di un greppo roccioso la descrimina dalla Porta da Piedi, da cui si diparte la serpentina strada mulattiera. che conduce fuori dall'abitato, verso la stazione della Stefer e verso quelle vigne che sono il vanto di Piglio.
Da gentili mani di fanciulle è sempre adornato di fiori il cancello di ferro del suo portale, mentre alla Vergine giunge, in tutte le ore del giorno, il saluto dei buoni popolani che passando, discendono dalla gibbosa costa della valle, per recarsi al lavoro dei loro rinomati vigneti.
Nel riportare la nostra storia cittadina, abbiamo potuto constatare che tra le giornate radiose della sua vita non mancarono giorni oscuri e di lutti. di cui fa spettatore il sec. XVII. Nello scorcio di questi tristissimi anni, anche nelle nostre contrade si abbattè lo spettro della morte, la quale, proiettando la sua nera ombra sull'abitato di Piglio, vi discese per aprire le porte delle nostre case al flagello contagioso della peste. Le ore della tragica calamità vissute dalla po-
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polazione, ci vengono narrate dalla tradizione orale dei nostri vecchi nonni, ma anche da più accurati studiosi. Da una diligente descrizione di quel flagello senza precedenti, compilata dallo zelo di D. Vincenzo Bonacci, tratta dagli Annali d'Italia di Lodovico Antonio Muratori, e tutt'ora custodita nella chiesa Collegiata, rileviamo che il morbo epidemico della peste, dopo aver infierito in Sicilia, a Napoli ed in Roma, si propagò con virulenta crudeltà, anche tra le case di Piglio. Gli abitanti immersi nell'incubo spaventoso di tanta rovina, vivevano giornate di desolazione. Stretti nella morsa della disperazione, dall'alba alla sera e nelle buie ore notturne erano costretti ad assistere al macabro spettacolo dell'orco della morte, che inghiottiva vittime sopra vittime. Le platee e le transenne dell'antico castello di Piglio non erano sufficienti a contenere l'immane ecatombe delle vittime. Ma ai cuori doloranti di tante sventurate famiglie giunse un raggio di speranza. Infatti tra le case circolava l'aura della buona novella, che la dolce immagine della Madonna delle Rose, la cui meravigliosa effige vedevasi incastonata sulla parete dello scoglio protetto dalla cappellina votiva, emanava copiose stille di lucente sudore. A quella voce, foriera di celesti grazie, la popolazione si commosse, accorrendo compatta a prostrarsi ai piedi della miracolosa Icone della Vergine. Il fenomeno avveniva in una giornata radiosa di sole, sopra a un colle roccioso. asciutto e privo di ogni benchè minima traccia di stillicidio o di umidità. La causa, dunque non era naturale, bensì del tutto sovrumana. Un coro d'invocazioni deliranti e cento e cento mani gentili si levarono per raccogliere in pannolini il portentoso sudore, che fu portato, sulle ali dell'amore, al letto dei morenti. Gl'infermi, appena accarezzati da pezzuole madide dell'umore, risorgevano alla vita.
Da un nubifragio di inaudita violenza, sopraggiunto nel cuore delle notte, fu squassata la valle, che circonda il castello di Piglio. La moltitudine dei fedeli, che pregavano nella loro veglia d'amore presso la cappella votiva della Vergine, non fu bagnata da minima stilla dell'acqua torrenziale. La serenità di uno squarcio di cielo stellato proteggeva la folla accalcata sullo scoglio, dove sorgeva il piccolo santuario.
Ad un tratto nella cappellina giunse un garrulo usignolo, che incessantemente sorvolava la lampada accesa. Cessato il canto e il vo-
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lo del grazioso augellino, si estinse sul quadro la manifestazione del sudore, e con essa cessò d'infierire l'effetto letale della peste. La portentosa mano della Madonna delle Rose, ricca delle più elette grazie, aveva fugato dalle squallide case del Piglio lo spettro pauroso della morte. Della verità storica, del miracolo, avvenuto il 3D ottobre 1656, lasciò testimonianza scritta lo stesso governatore di Piglio, Francesco Costa, ed egli stesso, dopo essere accorso col medico Marchetti e coll'Arciprete don Domenico Gianardi a venerare la miracolosa immagine della Madonna delle Rose, potè constatare de vi su la realtà obbiettiva dell'avvenuto miracolo, risplendente agli occhi della popolazione, più che luce meridiana.
Il popolo di Piglio, per gratitudine di quello e molti altri benefici ottenuti, ha confermato sempre e conserva tutt'ora verso questa Immmagine la più viva devozione, il che mostra con le continue visite al Santuario e con la celebrazione di due solenni feste all'anno: la prima, il giorno seguente a quello della Pentecoste, la seconda a rendere memorando nei posteri il giorno in cui accadde la liberazione della peste, il 30 ottobre. In entrambe' le feste la ricchezza dei doni offerti alla Vergine dalla popolazione tutta, gareggia con la più soda devozione.
Il Sentucrio con lo statua e lo effige mìracolosa della Madonna del· le Rose, og· getto di centinue visile e pellegri· naggi.
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Ancora un cenno sulla collegiata di Santa Maria Assunta in Cielo, nella cui Sagrestia, arricchita di archivi caratteristici del '600. è custodita la statua del protettore del nostro paese, S. Lorenzo Martire, il più giovane santo che la chiesa vanti all'epoca della sua persecuzione pagana con l'Imperatore tiranno Valeriano,
Sorge nel cuore del paese e al turista la visione che si presenta nell'andare a visitarla è di una graziosa e medievale bellezza. Infatti dopo aver attraversato l'angustissima via selciata che ivi conduce, immediatamente si trova di fronte la collegiata con la sua marmorea facciata, con un rosone centrale e con l'antistante piazzetta, che fa contrasto con il resto delle strettissime vie che l'attorniano. La costruzione primitiva della chiesa a pianta basilicale di stile romanico, che nella sua purezza si rintraccia solo nel gruppo lombardo-emiliano, risale al lontano sec. XII, da quanto si può dedurre dai suoi lineamenti (mancano infatti le fonti storiche), che esternamente hanno un'elegante struttura non rilevabile per altro nell'interno della chiesa. Gli alti campanili che la fiancheggiano, uno con la torre campanaria e l'altro con l'orologio, sono di recente costruzione, non risalendo infatti oltre il secolo scorso, però nell'insieme non stonano con il tutto, favorendo anzi l'armonia della slanciata chiesa.
Nell'interno, le tre navate divise da primordiali colonne, alle quali in epoca rinascimentale sono stati sovrapposti fregi di stile jonico-corinzio che le rendono stilisticamente più belle, si presentano a sesto completo in mura tura, rispecchiano, se si eccettua un leggero schiacciamento, resosi necessario per ragioni tecniche nella ricostruzione ultima della chiesa, dopo gli eventi bellici del 1944, quello più piccolo dell'abside.
Ai lati delle navate laterali, più basse della centrale, vi sono altari (due per parte) di netto stile barocco, specialmente nella parte superiore, che contribuiscono ancora di più a rendere la chiesa piena di promiscui ed indecifrabili ordini artistici man mano soprammessi. L'abside, terminante in alto a semicupola, con il suo altare maggiore, nell'insieme appare troppo spoglia e disadorna, se paragonata al barocco degli altari, compresi i due ai suoi lati, consacrati alla devozione di S. Giuseppe e del S. Cuore, mentre gli altri sono stati dal popolo dedicati in tempi vicini e lontani rispettivamente
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a S. Giovanni Bosco (che ha sostituito quello di S. Stefano il 2 settembre del 1962), a Sant'Antonio, alla Madonna di Pompei e alla Madonna di Loreto.
Meno importante, ma pur sempre meritevole di una visita da parte del turista che suol essere completo, è l'altra parrocchia, la cui origine risale ad epoca posteriore alla precedente, dedicata al culto di Santa Lucia. La restaurazione della sua facciata insieme con i suoi muri esterni porta la data del 1957; nella sua base vi è un
rivestimento in travertino alto circa due metri e la porta di ingresso completamente rinnovata, per l'aggiunta di un atrio in legno accuratamente lavorato, con due porte laterali, per l'accesso all'unica navata della chiesetta. L'interno si presenta piuttosto semplice, con lineamenti moderni rilevabili anche dal variopinto marmo dell'altare e della balaustra.
Con quest'ultime brevissime notizie sulla chiesa di Santa Lucia. chiudiamo questo quadro di alcuni dei nostri templi, numerosi ed artisticamente belli, che il cuore magnanimo del popolo di Piglio ha voluto erigere, per esternare la sua profonda devozione e per sapersi costantemente protetto dal valido patrocinio dei santi tutti.
Dopo questa schematica visione sulle tradizioni, sui personaggi, sui costumi, sulla religiosità, sulle usanze di Piglio, due idee contrastanti mi sobbalzano in mente: la prima di raffrontare, fatti ben s'intende i dovuti cambiamenti, i suoi abitanti ai personaggi dei « Promessi Sposi », l'altra invece di accostarli a quelli dei « Malavoglia ». Infatti, se da un lato questa gente ripete gli stessi sentimenti di fede, di devozione, che il Manzoni ha messo sulla bocca dei suoi personaggi, dall'altro, una minoranza scettica, pare voglia con una vita acre, con pettegolezzi, con atteggiamenti pietosi, essere lo specchio di quello che accadeva ad Aci Trezza, il paese protagonista del romanzo del Verga. Alla giudiziosa Lucia, al deciso Renzo, alla commovente Cecilia, pare impossibile, ma pur vero, si contrappongono la civettuola Mena, il lusingatore compare Alfio, la insoddisfatta Lia. Al popolo, che si conforta nella fede della Divina Provvidenza, che vive religiosamente equilibrato e sereno, come abbiamo avuto modo di mettere in luce nel corso di queste pagine, inconciliabilmente vive vicino uno sparuto numero di pessimisti, di schopenauriani, di insoddisfatti, che vivono senza problemi alcuni, con-
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tentandosi dell'aria che respirano e delle ciarle che spacciano, sentendo troppo la pesantezza del sacrificio. Costoro però, degni se non altro di comprensione, non sono da paragonare in tutto e per tutto, a scanso di ogni malinteso, ai personaggi del Verga; tutt'altro è il loro mondo, essendo lungi da essi la disperazione, la tragedia, poichè in fondo sentono come gli altri, pur non potendolo o volendolo manifestare, il segno della Divina Provvidenza, perchè la voce dei padri, che fiorirono in questa classica terra ernica, amando il lavoro e lo studio, accettando serenamente anche le umili fatiche dei campi nel confidare in un domani migliore, è pur sempre viva ed ammonitrice per tutti indistintamente.
Degli antenati hanno anche conservato il linguaggio, che risente necessariamente della posizione geografica. Il « Capitulum Hernicorum » per chiamarlo come gli avi, tutto chiuso da montagne, tranne n'ella parte occidentale, che riserva meravigliosi tramonti, ha dato ai suoi abitanti, un vernacolo, che è il riverbero forse del luogo o meglio dell'asprezza delle montagne, che cingono in un unico amplesso, il nostro glorioso paese, che è stato meta di principi, come S. Benedetto e S. Francesco e di eroi, come Garibaldi, il passaggio del quale (avvenuto il 20 aprile 1849 mentre accorreva in difesa della Repubblica Romana) è ricordato ancora da una lapide.
Solo qualche esotica infiltrazione, dovuta a contingenze storiche, ha alterato la primitiva fisionomia del dialetto pigliese, che rivela il carattere del suo popolo per il fatto che tale palesamento non si ha nelle leggi e usi solamente, ma anche nel suo linguaggio e nella natura in cui vive, come giustamente ha lasciato scritto il Malaparte.
Le accennate infiltrazioni, necessarie per il perenne rinnovarsi di ogni cosa, hanno portato degli spagnolismi, dei francesismi ed anche dei grecismi appena sensibili, i quali ci dimostrano come il paese sia stato più volte visitato e tempestato da continue incursioni belIiche già innanzi ricordate o letteralmente riportate, in cui rifulse il valore degli « uomini di questa terra atti a maneggiar armi al pari di qualsivoglia »,
Il vernacolo pigliese è abbastanza lontano dall'idioma madre, che per una comune legge, anche ad esso deve in parte la sua origine, ma è egualmente espressivo, incisivo, e comprensibile. Anche i latinismi non difettano e rivelano come il nostro linguaggio tende al
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essere conciso, ma vivo, anche per la bramosia di dire con pochi monosillabi ciò che richiede interi periodi. Forse si potrà attribuire oltre che alla natura del luogo ed alle occupazioni subite, anche agli usi e ai costumi del popolo pigliese, che per natura è pratico, deciso, positivo e attaccato al lavoro, non avendo quindi tempo per inutili e vane ricercatezze da salotto, come essi dicono. Comunque la parola scaturisce dalle loro labbra facilmente, come polla d'acqua dalla sua sorgente, e spesso è ricca di espressioni efficaci e di proverbi, sintesi della saggezza popolare, che impreziosiscono il discorso. Facilmente si possono cogliere sulle loro bocche stornelli (soprattutto quando lavorano), sentenze, versi, appena delle assonanze e poesiole, che pur non rispettose delle regole metriche, sono egualmente belle per la loro spontaneità. Per constatare con esempi ciò, riportiamo versi quanto mai significativi. Alcuni di questi, richiamandoci alla mente una delle già ricordate e vantate caratteristiche del paese, dicono:
Da S. Lorenzo alla campagna non si beve lo Champagna, san campagne dappertutto
e non c'è il vino asciutto,
ma c'è il Cesanese
da dissetar tutto il paese.
Come si può notare, il tema dominante (pur con le plausibili spontanee imprecisioni, perchè si dissetano in realtà altri ed altri paesi) anche nelle espressioni, diciamo così, più ricercate, è l'osanna al vino che non si lesina a fare neppure nelle poesie dialettali. A mo' di esempio riportiamo quanto segue:
Ci piaceva de fa 'na merennata e iemo 'ncima alla 'nzuglietta,
magnemo maccaruni l'arosto e la 'nzalata e ci sculemo nu buccione e mesa foglietta, perchè chi se beve lu Cesanese
campa cent'anni e nu mese.
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Non mancano comunque poesiole più complete e come le citate egualmente espressive, elaborate con più accortezza da poeti estemporanei non oberati dall'incessante lavoro, per esaltare ora questo, ora quello. Non hanno pretese alcune, ma sono pur belle, significative, sature di ispirazione genuina e spontanea. Ne stralciamo una dalla copiosa raccolta di Alessandro Cola vecchi, particolarmente tagliato per questo genere di poesia, intitolata: (( La bellezza naturale di Piglio )).
Chi osa affermare l'opposto! dalla sua bellezza natural
si identifica ben tosto
Piglio incluso nello stiva!'
Adorna di boschi i suoi monti che allietano i nostri cuori
con meravigliosi tramonti:
a Piglio devonsi onori.
San del tutto trasfigurati
lo Scalambra e le Pendenza; dei tempi ormai sorpassati non v'è alcuna reminiscenza.
In Piglio ogn'anima si bea nell' esplorare l'orizzonte;
dal luogo del Beato Andrea a noi Val Sacco è di fronte.
Dappertutto è verdeggiante la sua campagna amena, ogni casolare festante s'indora in ora di cena.
Palazzo Colonna medievale con l'acropoli Pontecorte: del valor monumentale anche questa è bella sorte.
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g
Senza uscir fuori di tema facciamo quello che ci vuole: cinger Piglio del diadema ultimando le nuove scuole.
Sarem allora soddisfatti
degli onori a noi resi; procediamo sempre compatti: evviva tutti i pigliesi.
(1960)
Questa graziosa poesiola, che è un pò il riassunto e l'epilogo di quanto è stato più diffusamente detto, ci menziona giustamente, tra le altre cose, anche la costruzione delle nuove scuole. Infatti a Piglio non tutto è medievale, anche se abbondano le porte e gli archi antichi (tra i più famosi quello della Fontana e dell' Arringa) e le angustissime vie selciate, che rendono piuttosto lento l'afflusso e il deflusso dell'ormai numerose macchine.
Neppure tutto è bucolico e georgico, come potrebbe sembrare da quanto fin'ora si è scritto; infatti, se l'attaccamento alle montagne, alle campagne, alla vita pastorale è diffusamente sentito, non di meno comincia a farsi avanti la necessità di un risveglio, di un rinnovamento e di una sempre più continua rnodernizzazione per la normale evoluzione delle idee e dei tempi.
Pur nella sua lentezza, la rinascita ormai è un fatto positivo.
Già se si considera l'ultimata flemmatica costruzione del su citato edificio scolastico, ampio (anche se non troppo architettonico) e capace di accogliere in un solo turno, le numerose scolaresche di Piglio, dalle elementari alle medie, prima costrette a deplorevoli quanto snervanti doppi turni, in approssimate e gelide aule, un notevole passo avanti si è fatto, anche se attraverso non poche difficoltà. Comunque l'ormai iniziata rinascita non si arresta a questo. E' stata aperta sui fianchi della collina, dove giace il paese, una strada di circonvallazione, ora in fase di completo assestamento, che potrebbe risultare in un domani vicino o lontano, quanto mai utile per l'ulteriore sviluppo di Piglio. Sono state edificate alcune palazzine pub-
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Il vecchio e il nuovo, ovvero, il vetusto CQstello e il
moderno edificio scolastico
bliche e private, munite di ogni più moderna comodità, che quasi sembrano discordare con le vicine costruzioni antiche, a cui l'occhio si era ormai assuefatto, mentre è in progetto la realizzazione di un accogliente albergo nella zona periferica e più bella del paese non lungi dal convento di San Lorenzo, già ricordato e lodato per la sua posizione.
E come non citare la costruenda cantina sociale, che iniziata pochi mesi or sono, ha fatto passi da gigante, essendo già atta a raccogliere una abbondante parte della rituale vendemmia pigliese!
Posta proprio tra i vigneti, questa cantina, che ha una ricettività di circa ventisettemila quintali di vino, la prima del genere in una zona così pregiata, apporterà un notevole incremento economico, che valorizzerà non solo il prodotto, offrendo il vermiglio Cesanese, scintillante al pari del rubino, ma anche le località più
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strettamente interessate come Paliano, La Forma e il nostro Piglio.
Si può ora orgogliosamente affermare, che nel nostro paese, oltre che trovare quella pace montana ed agreste, si ha la possibilità di affiancare la catarsi che ne deriva, che fa deporre la ruggine che consuma l'esistenza, a visioni e vita moderatamente evolute. Queste, pur non intaccando minimamente l'integrità di una meravigliosa vacanza montana e della tranquillità del luogo, contribuiscono a renderlo più caldamente ospitale, a quanti avranno la possibilità di trascorrere qualche giorno nella nostra gloriosa ed esemplare terra ernica, a cui il monte Scalambra ha così benevolmente voluto concedere una posizione davvero incantevole in questa regione del Lazio.
L'edificanda
cantina sociale del Cesanese,
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E' un nostalgico e bel ricordo, scritto nel 1963, del 1 della terra del vino DOC Cesanese, delle sue tradizioni, della sua arte, della sua natura , dei suoi vigneti e della splendida natura alle falde del monte Scalambra nelle montagne degli Ernici.Per saperne di più si prega di consultare il completo libro del compianto medico Massimo FELLI , scritto in 290 pagine, nel 1993.
RispondiEliminaSto leggendo attentamente questo piccolo saggio di bravura, se si pensa che è stato scritto all'età di diciannove anni. Si nota un minuzioso e prezioso amore per il "natio borgo selvaggio", affiancato a una precisa ricerca storica che riproduce lo scenario raro e fortunato sia per grazie di natura che per crescita umana. Qui sono anche le radici della mia famiglia, perciò il discorso mi risulta caro e gradevole.
RispondiEliminaCaro Antonio,
RispondiEliminaho letto con molto piacere queste tue note su Piglio che grazie ate ho avuto l'opportunità di conoscere e apprezzare.
Ottimo lavoro. Viva il cesanese.
Un abbraccio
Pietro
IL Comune di PIGLIO (FR) ha una grande storia secolare i cui STATUTI sono stati pubblicati nel 1993 nel libro del medico Dott. Massimo Felli. Qualche giovane rampante , ambizioso e senza letture storiche pur essendo Consigliere Comunale nel 2003 scrisse che la funzione pubblica nel Comune del Cesanese era nata con lui. Peccati capitali di sfrenato orgoglio e di massimo diniego. I nuovi VIZI CAPITALI sui quali è utile leggere il libro di UMBERTO GALIMBERTI !
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